ARTE

Per la Prima Volta due Giganti del Novecento a confronto: Giacometti – Fontana. La Ricerca dell’Assoluto

Fino al 4 Giugno 2023 si potrà ammirare al Museo di Palazzo Vecchio Firenze la mostra Giacometti – Fontana. La Ricerca dell’Assoluto da un’idea di Sergio Risaliti a cura di Chiara Gatti e Sergio Risalti. Alberto Giacometti e Lucio Fontana per la prima volta insieme. Un progetto museale inedito presenta l’incontro ideale e il dialogo potente fra due giganti del Novecento, grazie al confronto straordinario fra capolavori in arrivo dall’Italia e dall’estero. L’esposizione sarà ospitata all’interno degli spazi monumentali del Museo di Palazzo Vecchio, in particolare nella Sala delle Udienze e nella Sala dei Gigli, dove oggi si conserva la celebre Giuditta di Donatello.

Per la prima volta, infatti, saranno messe in relazione queste due colonne portanti del XX secolo, così distanti nelle attitudini e nella vita, ma altrettanto legate da una riflessione sulla verità nell’arte, conquistata attraverso l’esperienza della materia e insieme dell’immaginazione, in bilico fra la dimensione primordiale del tempo e quella cosmologica dello spazio. Un colloquio che vuole suscitare domande piuttosto che dare risposte, per stimolare il dibattito critico e inattese narrazioni attorno ad affinità di pensiero e riferimenti condivisi. Una mostra in cui le opere accostate acquistano la potenza evocativa di un sogno, la cui presenza va interpretata cercando risposte lontane nel tempo e nel futuro.  La ricerca dell’assoluto è il punto di contatto tra Giacometti e Fontana. Cercando l’assoluto entrambi hanno raggiunto l’essenziale rinunciando all’imitazione e superando i limiti della rappresentazione simbolica e figurativa con una pratica artistica che ha fatto perno sul gesto e la manipolazione, sulla concentrazione e la rinuncia alla forma definitiva.

Mentre Lucio Fontana cercava l’infinito della vita, tra mondo naturale e spazio cosmico, proiettando la mente oltre la superficie della tela e nella trasformazione pre-logica della materia, Alberto Giacometti scrutava l’essenza dell’esserci, al di là della presenza, a partire da uno “stare sulla terra” di matrice heideggeriana, ma spogliando di ogni dato superfluo l’immagine, orfana di corporeità, sensualità, gravità, ridotta a uno stelo dell’anima, un concentrato in potenza di vita e, insieme, caducità. Mentre Fontana aspirava a quel punto di sutura dove inizio e fine coincidono e, dentro la materia oscura, cercava la luce affondando le mani nel cratere della germinazione per estrarne un bagliore, Giacometti era torturato dalla finitudine e viveva nell’ombra, sulla soglia in cui morte e vita si annullano. Figure dalle indoli opposte, ma accompagnate dalla stessa magnifica ossessione, quella per l’invisibile che è dentro e fuori di noi, nella carne e nel cosmo, nelle cellule e nelle stelle. Entrambi hanno lavorato la materia togliendone ingombro e opacità, mineralizzandola, alla ricerca dell’assoluto (teorizzata da Jean-Paul Sartre nel suo leggendario testo del 1948) dentro i volumi erosi della materia stessa, quella dell’eterno sigillato nei confini della forma. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle figure di Alberto Giacometti e Lucio Fontana apro il mio saggio dicendo: Posso dire che l’opera di Alberto Giacometti ha risentito dell’influenza dell’Esistenzialismo egli si avvicinò grazie anche all’amicizia che aveva con Jean-Paul Sartre, amicizia nata a Parigi all’inizio della guerra. II nero momento della guerra, espresso chiaramente nelle opere di Sartre e degli altri filosofi esistenzialisti, conducono Giacometti e la sua opera ad una esperienza limite: le sue sculture divengono di volta in volta più piccole e quando non spariscono completamente possono essere contenute in una scatola di fiammiferi.

Ma i personaggi di Giacometti non scompaiono mai del tutto: la guerra dilaniava l’umanità e il grumo di materia strappato sull’orlo dell’abisso bastava, per quanto minuscolo che fosse, ad avvertire ancora una presenza umana. Nella figura ridotta anche a dimensioni minime, esilissime, ritroviamo tutto: la sofferenza inconsolabile dell’uomo e la sua ultima decadenza fisica, perfino la nobiltä e la grandezza tragica della statua. II fuggevole e dunque nel nucleo umano che lo spazio riesce ad assorbire, a dissolvere, ad assimilare nel suo vuoto perche la figura di Giacometti, anche ridotta a un grumo, a uno stelo, a un vuoto che urla di angoscia, e una presenza diretta e riflessa di cose vicine e lontane. Giacometti, trasponendo questo insieme di relazioni a un solo dato assoluto che vuol cercare nella figura, cerca di distruggere lo spazio e trova ancora relazioni, benché ridotte ai minimi termini, ovvero alla soglia della fine del nulla. Non e il nulla per Sartre la condizione necessaria e assoluta del per se. E un’esperienza di non essere radicale che il soggetto compie nel suo stesso essere e agire concreto. Esso si presenta al soggetto sotto le forme più immediate e improvvise. Già la nostra semplice interrogazione sull’essere ci rivela che siamo circondati dal nulla, in quanto qualsiasi risposta sarà una limitazione, un annullamento rispetto all’indeterminata totalità del reale che e. L’analisi della negazione più elementare ci rivela che la «condizione necessaria perché sia possibile dire no e che il non essere sia una presenza continua in noi e al di fuori di noi, e che il nulla penetri continuamente l’essere». Da Sartre, Giacometti ha imparato che il vuoto e nell’essere stesso. Lo stesso filosofo e alcune sue opere come L’essere e il nulla hanno incoraggiato Giacometti a far sorgere nella sua pratica artistica quelle categorie il tutto, binfinito, la materia di cui aveva bisogno per sopravvivere negli anni di vana ricerca.

E in questo periodo che appare in «Labyrinthe» bangoscioso racconto autobiografico Lereve, le Sphinx et la mortde T. Ecco una pagina straordinariamente rivelatrice del racconto che vale come un’analisi profonda della situazione spirituale dell’artista, e del suo rapporto con l’essere e con il non essere, fondamentale per intendere la sua arte. E il caso di pensare che il racconto di questa esperienza ha qualche cosa di letterario, perche s’ispirerebbe a qualche autore, per esempio al Sartre della Nausea. Giacometti, soltanto qualche mese dopo la stesura di queste pagine, ha scolpito due o forse tre opere che confermano la loro analisi ed esprimono anche il suo terrore e provano abbondantemente l’intensità con la quale si e manifestato e ancora si manifesta.
Queste opere sono Donna seduta, II naso e Testa su stelo; esse esprimono il «terrore» più primitivo, quello dell’essere davanti al nulla, in modo evidentemente sincere e altrettanto intenso. Tuttavia la visione spaventosa legata alla morte, in Giacometti giustifica ancor più l’insondabile bellezza della vita, in quanto si accompagna quasi subito a una esaltante visione compensatrice sorta in circostanze precise e descritta dall’artista con il carattere di una illuminazione. II 1946 e il 1947 hanno visto formarsi nelle sue mani un’arte che, in una certa misura, ha dato atto della sua visione, aiutandolo costa tenerla in mente per meglio lottare contro il «terrore», certamente mai completamente debellato. E ora e necessario cercare nel lavoro dell’artista ciò che in esso e stata la trasposizione e lo sviluppo e quindi il rafforzamento, ma forse anche la messa in pericolo dell’intuizione che alla fine del 1945 si produsse in lui  va messo in rilievo per rendere giustizia di una certa idea della creazione in un’esperienza diretta della presenza del mondo.
In questo lavoro ci si trova immediatamente di fronte al disegno. II catalogo delle opere di Giacometti per il 1946 annovera pochissime sculture, ma offre una quantità considerevole di studi, a matita e perfino a pennello, tra cui molti ritratti di Annetta, di Diego, di Pierre Matisse e soprattutto di Sartre. D’apres nature: il principio fondamentale nel 1946 fu la dipendenza dalla natura invece che dall’immaginazione «Quello che mi interessa e la rassomiglianza, quello che mi fa scoprire un po’ del mondo esterno» con la continua esplorazione dei modelli. Giacometti ha imparato a esprimere con il disegno, con la libertä del disegno, la non pesantezza, l’essenziale leggerezza che caratterizza ciò che e la vita o si associa alla vita. Ed e questa leggerezza che ha trasposto nella scultura, nel 1947, grazie a quello che si può definire un episodio da atelier, il cambiamento che si e operato nel rapporto tra le sue mani operanti e quel gesso o quella terra che esse lavoravano da tanti anni.  Lo scultore ha gli occhi fissi su ciò che le sue mani devono o non devono cercare di iscrivere in quello che per lui non e dapprima che materia inerte, sul trespolo; questa materia che, diceva a Simone de Beauvoir e a Sartre, si divide all’infinito, contraddicendo cosi ogni progetto d’insieme. Ma l’evidenza della materia e ormai troppo forte per essere cosi sovvertita quando, nel 1946, dopo aver disegnato alcune figure in piedi, alcune teste, Giacometti si sente ripreso dal bisogno misterioso di fare scultura, ma teme che le sue figure si riducano di nuovo a un pollice. Pensando forse al Balzac di Rodin, che ha appena ritrovato, studiato, prenderà a piene mani questa materia che e l’esteriorità della vita per racchiuderla per far sgorgare dalla sua massa, plasmata cosi dal volere dell’uomo, i caratteri di estensione, di infinito inerte, le protuberanze e i pieni che si aggrovigliano per nulla nella luce deserta. E ciò che resta tra le mani dell’artista, possano nascere, essendo caduta ogni materia, quegli occhi che in una persona reale sono la vita soltanto perche questa ha similmente rifiutato nel rapporto con se tutto il suo «resto» di materia indifferente, di morte. Ed e ancora inventare una specie di nuova mimesi: quella che non tende più alla credibilità di una figura liberata dalle apparenze, ma che di primo acchito e significante di ciò che succede nel modello sul piano evidentemente non visibile, metafisico, dove bisogna che ad ogni secondo questo essere si erga in se per continuare a essere. Ecco un’attenzione all’oggetto della rappresentazione che non crede più a nessuna cosa che non debba lottare per essere, che non s’interessa che a questo mistero. E stiramento delle figure, questo modo che hanno ora di portare molto in alto nell’assoluto la loro testa, ridotta a energia vitale, lasciando la materia al di fuori, a costo di catturarla nelle reti di questa energia al lavoro, semplicemente e totalmente la cifra di questo mistero. Straordinarie sono la rapidità e la vastità dell’invenzione nelle opere di Giacometti durante alcuni mesi del 1947. Ma lo straordinario non e l’inspiegabile, ed e facile vedere come questo sviluppo tanto a lungo rimandato sia stato logico. Innanzitutto ö possibile osservare che questa visione dell’atto di essere si mostra nelle nuove opere ed e questo il compito più semplice senza riferimento ad un essere particolare, la cui apparenza precisa si accorperebbe all’atto che e oggetto di attenzione. Se in alcuni disegni erano Diego e Sartre che portavano la presenza, che le davano rilievo, nelle alte figure di donne immobili o di uomini in movimento riprodotte nel catalogo del 1948 l’apparenza di questa o quell’altra persona non ha richiesto la partecipazione dello scultore e questo abbandono, che sarà solo momentaneo, della preoccupazione di testimoniare un viso, un’esistenza ben finita, libererà il lavoro da un motivo di «invischiamento» di cui in altre epoche Giacometti era stato vittima. D’altra parte l’esclusione, in queste statue, del pensiero della mimesi «esteriore», del compito di essere fedele a un viso che si guarda, permetterà a Giacometti tutto un possibile per lui ancora inesplorato. Ed e allora una varietà d’approccio che per la prima volta permette, nell’opera figurativa di Giacometti, l’esistenza di statue che non sono più da vedere di fronte, ma differenziate dall’interno, caratterizzate da un gesto, un atteggiamento e suscettibili di conseguenza di prendere posto le une accanto alle altre in un insieme che catturerà l’attenzione. La prova di questa genesi dall’interno delle figure del 1947, oltre che un esempio di facilitä con cui Giacometti può allora spingerla fino in fondo, e evidentemente L’uomo che cammina: perche non abbiamo bisogno di cercare molto lontano tra le sue dichiarazioni per trovarvi il rapporto con se stesso che si e proiettato in questa opera. Non vi e nessuno che non conosca oggi questa statua, la più famosa di quelle di Giacometti, questa alta figura dalle gambe che tengono la testa lontano dai grandi piedi rocciosi trattenuti, si direbbe, nell’alta pietra, quella dello zoccolo. E nessuno, neanche, che non abbia visto questa «camminata» leggera e insieme appesantita come un’immagine del suo proprio slancio nella vita, ma questo perche Giacometti per primo ha abitato la sua statua. Egli rappresenta ciò che gli e apparso sul boulevard, all’occasione dell’incidente nel 1938, come «bellezza fantastica, totalmente sconosciuta»: vale a dire che «l’uomo che cammina per la strada, non pesa niente, molto meno in ogni caso dello stesso uomo morto o svanito. Sta in equilibrio sulle gambe. Non sente il proprio peso». L’uomo che cammina e l’opera di un Giacometti che medita il mistero dell’essere, rintracciandolo nel proprio corpo come forse avviene negli esercizi spirituali delle religioni orientali.

. E ciò che bisogna mettere in risalto e che, ponendosi come oggetto quella sintesi di forze che tende a produrre un equilibrio, egli e riuscito a produrre ciò che fino allora aveva sempre ritenuto impossibile, almeno per lui: l’implicazione in scultura di un movimento del corpo. Dopo la sua lunga crisi, questa era per lui una difficile conquista. Ma nell’avanzare di una gamba in questo uomo che cammina può essere visto come un gesto subito compensato da un altro gesto a vantaggio di una risultante, equilibrio «di un piede sull’altro», che ci chiama sul piano dove essa ha la sua realtà, che e la volontà di essere; fare si che si cammini, che si sia. E un’altra conquista di questa proiezione di se che Giacometti fa nella sua nuova scultura e che ora può riuscire in ciò che fino allora gli era stato negato: esprimere un pensiero, una considerazione sulla vita, all’occorrenza quel «camminare prodigioso, semplicemente prodigioso».

A partire dal 1950 l’opera di Giacometti cambierà in modo profondo e definitivo. La pittura predominerà di gran lunga sulla scultura. In realtà Giacometti non ha mai smesso, perfino nell’ardore dei bronzi, di interessarsi di pittura. Molto significativo di questo periodo e l’olio su tela intitolato L’atelier, poiché ci permette di capire sempre meglio il rapporto Sartre-Giacometti. Dal 1946 al 1956 l’artista si preoccupa di definire la relazione della figura con l’ambiente e si mette a una distanza tale dal modello che gli permette di abbracciare con lo sguardo lo spazio in cui esso si trova.
Dal 1960 si avvicina molto più al modello, ora che l’esperienza gli ha insegnato che se anche un solo particolare di un volto e pienamente realizzato, da questo si irradia la totalità unitaria del volto, anche se altre parti sono abbozzate spesso con estremo vigore espressivo. Questo avvicinamento dell’artista alla persona che egli vuole ritrarre e la conseguenza soprattutto del suo interesse per la persona umana e ancora per il suo volto che egli vuole indagare. Anche da un particolare di un volto, se e pienamente realizzato, si irradia come si e detto la totalità unitaria della fisionomia e Giacometti si prefigge di dare immagine allo sguardo con una fedeltà assoluta. Egli deve spogliare la percezione visiva di qualsiasi elemento deliberatamente estraneo: onde la visione ritrovi quella purezza e quell’essenzialità che sembravano perdute e non solo nella resa del volto ma del busto o della figura tutta intera. Al momento in cui aveva toccato il grado supremo dell’astrazione, aveva riconosciuto la necessitä di un nuovo confronto con la figura umana e in tal senso aveva ripreso il lavoro. Dell’intera figura umana vi sono due immagini fondamentali in Giacometti: l’una e immobile, le gambe e i piedi riuniti, le braccia aderenti al corpo, adottando la rigidità e la frontalità delle statue arcaiche. E questo procedimento sculturale e particolarmente messo in evidenza quando le figure sono fissate su degli enormi piedistalli che sostengono il loro carattere di immutabilità. Altre figure sono invece viste nell’atto di camminare, attraversanti lo spazio a passo di gigante. Le figure in marcia o immobili possono presentarsi sole o in gruppo. Nelle composizioni, nei ritratti, negli interni, nelle nature morte, cosi come nei paesaggi, la grisaille e il tono dominante: un grigio tinteggiato che non dona la sua profondità, la sua ricchezza se non dopo una osservazione intensa. L’artista si serve di una pittura oggettiva attraverso strutture lineari e relazioni spaziali fra le cose e le persone. Nel gennaio del 1966 Alberto Giacometti muore all’ospedale di Coira e viene sepolto a Stampa, sua villaggio natale. Nello stesso anno la città di Zurigo rende omaggio all’artista inaugurando la Fondazione Alberto Giacometti. Egli è stato un grande artista che ha posto il suo problema in termini estremi di «essere» e «nulla» nella dialettica che e dramma da cui nasce il sentimento tragico e desolato dell’ esistenza. C’è un principio della filosofia strutturalista che si chiama “casella vuota”. L’ha chiamato così il filosofo francese Gilles Deleuze in un suo libro del 1969 e in sostanza serve a ribadire una cosa un po’ strana, quasi controintuitiva, cioè che le “assenze” sono importanti tanto quanto le presenze. Lo strutturalismo è una corrente filosofica secondo cui ciò che conta è la posizione degli elementi del mondo, ma non si tratta di una posizione fisica, nello spazio geografico del mondo, ma nelle strutture invisibili, come le società, i saperi, i linguaggi e così via: non conta tanto ciò che occupa un posto nel mondo, ma conta il posto in sé. Ecco un esempio pratico: potremmo dire che non conta chi fa la guardia carceraria, conta quella posizione, quel ruolo, quella “casella” della società. Da lì, da quella posizione nella struttura sociale, si ottiene l’identità della guardia carceraria cioè una delle professioni in cui si tende a usare violenza con più facilità in assoluto, sia verso gli altri (i carcerati) che su se stessi il tasso di suicidi tra le guardie carcerarie è tra i più alti al mondo. Che la guardia carceraria sia io, Enrico, o un altro non cambia troppo. La casella che occupiamo è ciò che determina i nostri comportamenti.

Quasi contemporaneamente all’uscita del libro di Gilles Deleuze contenente l’idea della “casella vuota” muore Lucio Fontana, l’artista celebre per i suoi tagli sulla tela. Le due cose sembrano completamente slegate, ma è tutto il contrario. Se è vero, come sostiene lo strutturalismo, che ciò che conta davvero per l’identità delle cose sta nella struttura in cui queste sono incastrate, allora questo vale anche per l’arte e per la filosofia. Sia l’arte di Fontana che la filosofia di Deleuze si sono evolute in un contesto storico e culturale (una “struttura”, diciamo) molto preciso: gli anni cinquanta e sessanta del novecento, quelli dell’Europa del boom economico (quello vero) e del dopoguerra solcato da utopie politiche e da un grande fermento culturale, quel fermento che culminerà nel ‘68, che non fu solo parigino, ma, più generalmente, europeo. L’adesione di Fontana ai canoni artistici ufficiali, propri dell’arte argentina durante gli anni di forzato soggiorno in patria (1940-1947), conducono le sue ricerche artistiche verso una produzione figurativa in senso espressionista. Il periodo argentino, tuttavia, è stato del pari considerato una fase di ricarica e incubazione in vista dello slancio definitivo verso il Movimento Spaziale, impostato, in un primo momento, dal Manifesto Blanco del 1946, e sarà teorizzato da Fontana, in maniera completa, nel 1948, ad un anno dal rientro a Milano di quest’ultimo.  Trasferitosi a Buenos Aires nel 1943, per insegnare presso l’Escuela National de Bellas Artes, Fontana fonda, nel 1946, l’Altamira Escuela libre de artes plàsticas, un centro culturale che si pone in contrapposizione all’arte ufficiale e che rappresenta un punto di riferimento e raccolta per i gruppi di giovani artisti d’avanguardia, interessati a superare le teorie astratto concrete, che, in Argentina, ruotano attorno a tre poli: il gruppo Madì, la rivista “Arturo” fondata a Buenos Aires nel 1944 e “Arte Concreto-Invenciòn” (fondata nell’agosto del 1946). È in questo clima di rinnovamento e apertura che, nel 1946, viene redatto il Manifesto Blanco, firmato, da alcuni allievi della Scuola di Altamira, tra cui Jorge Romero, Emilio Pettoruti, Jorge Larco, Gonzalo Losada, ma non dallo stesso Fontana, forse inibito dalla propria appartenenza al mondo accademico. Allievi, testimonia Roccamonte, «nel senso che era lui il promotore, il provocatore, la molla che faceva nascere reazioni a catena da parte di noi giovanissimi, divenuti seguaci e sostenitori». E, infatti, Roccamonte testimonia un happening ante litteram, organizzato per diffondere le idee e le finalità del manifesto: «a questo manifesto doveva seguire qualcosa che mettesse in pratica le nostre idee, le nostre intenzioni. E per ciò fu deciso di fare una mostra collettiva, di uscire allo scoperto, come Gruppo. Ci demmo appuntamento verso le sei del pomeriggio e cominciammo a dipingere muri. In via Florida, all’angolo di via Cordova, avevamo scelto una casa diroccata, un terreno baldío, come si diceva in spagnolo. Lo spazio era molto grande. Dipingemmo muri, attaccammo stracci colorati: con bidoni pieni di pittura, di catrame riuscimmo a sporcare, a segnare le pareti. Appendemmo anche alcune sculture per i piedi. Era bello, ma l’esperimento durò poco perché arrivarono i poliziotti che ci fecero andare via tutti. Una manifestazione genuina, pura, reale, di chi aveva voglia di gridare di attrarre l’attenzione e non aveva mezzi sufficienti a disposizione». Il Manifesto blanco è, dunque, redatto non solo in aperta opposizione al rigore delle solide tradizioni artistiche argentine e in un clima di forte rinnovamento, ma anche in stretto riferimento al particolare ambiente sociale da cui prende le mosse. Ancora Roccamonte ci ricorda che il manifesto nasce in una società desiderosa di passare da una civiltà prevalentemente agricola, tradizionale e rurale, a una industriale, proiettata verso il futuro. Ricorda, infatti, che «il momento in cui nacque quel documento era ideale a Buenos Aires. Non avevano una vera, un’autentica cultura alle spalle perciò volevamo tutto, e subito, dalla vita, dalla scienza, dalla società».
Le idee di Fontana, espresse in questo manifesto, annunciano un rinnovamento totale dell’arte, in accordo con le nuove idee scientifiche e tecnologiche del tempo: «La scoperta di nuove forze fisiche, il dominio della materia e sullo spazio impongono gradualmente all’uomo condizioni che non sono mai esistite in tutto il corso della storia è necessaria un’arte già strettamente in accordo con le esigenze del nuovo spirito».

È teorizzata un’arte capace di adattarsi all’età moderna secondo la concezione per cui l’arte è la manifestazione dell’uomo in rapporto all’evoluzione del suo tempo non più fondata sulla rappresentazione mimetica della realtà, attraverso pittura e scultura, bensì influenzata dalle nuove tecnologie e dalle evoluzioni scientifiche contemporanea. Il Manifesto auspica l’apertura verso il subconscio e le facoltà irrazionali, al fine di generare un’arte che sia «autentica espressione dell’essere e una sintesi del momento storico»; ciò in contrapposizione rispetto alla ragione, che non crea ma imita.
Il Manifesto ambisce alla sintesi fra spazio, luce, colore, suono e movimento, attraverso il superamento della categorizzazione classica tra pittura, scultura e architettura. Il Manifesto Blanco ha avuto il merito di recuperare la spazialità conquistata dall’arte barocca e il dinamismo esaltato dai futuristi come caratteristiche della vita moderna. Traccia di queste idee si ritrova già in alcune opere giovanili, dove la sottile linea tra scultura e architettura diviene sempre più labile, ne sono esempio altresì: le sculture realizzate per la Colonia Elioterapica di Legnano, al pari dei successivi Concetti spaziali, tagli e fori, eseguiti su tela, terracotta, metallo, legno, che non si non si possono categorizzare in senso definitivo né pittura né scultura. Tornato a Milano sul finire del marzo 1947, l’artista entra nel pieno dello sviluppo dello Spazialismo. Già alla XXIV Biennale di Venezia espone i già citati Scultura spaziale e Uomo atomico, da cui emerge il suo interesse per lo spazio che dà forma concretamente soprattutto alla prima delle opere sopracitate. Lo stesso anno viene pubblicato Spaziali, il primo manifesto italiano dello spazialismo, scritto, secondo quanto riferisce Fontana a Giampiero Giani, da Beniamino Joppolo, che reca le firme di Lucio Fontana, Giorgio Kaisserlian e Milena Milani. Tale primo manifesto esalta l’importanza dell’atto creativo che morirà nella sua componente materiale, rimanendo però eterno come gesto. Si prendono le mosse dal presupposto per cui alla base dell’opera d’arte c’è l’idea, capace di renderla eterna, in contrapposizione alla materia, effimera e transitoria, soggetta al passare del tempo e all’inevitabile distruzione. Gli artisti spaziali immaginano, infatti, «di svincolare l’arte dalla materia, di svicolare il senso dell’eterno dalla preoccupazione dell’immortale». Come il Manifesto Blanco, anche il primo manifesto spaziale esprime la fiducia nel progresso scientifico e nei mezzi tecnologici, ma senza abbandonare o distruggere i mezzi del passato, anzi sostenendo che «queste materie, saranno affrontate e guardate con altre mani e altri occhi, e saranno pervase di sensibilità più affinata».

Nel marzo del 1948, è pubblicato un secondo manifesto Spaziali, firmato da Fontana, Giovanni Dova, Joppolo, Kaisserlian e Tullier a cui si deve la sostanziale redazione del testo. È ribadita nuovamente l’importanza dell’arte del passato, ma al contempo gli spazialisti intendono aprire la via alla scienza e alla tecnologia. Infatti, si legge tra le righe di questo manifesto, che tra l’altro risente, negli intenti e negli accenti linguistici, dell’influsso del manifesto del futurismo: «Ma non intendiamo abolire l’arte del passato o fermare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro », ma ricorrendo alla nuova spinta tecnologica «trasmetteremo, per radiotelevisione, espressioni artistiche di un nuovo modello». Da questi presupposti nasce l’Ambiente spaziale a luce nera , esposto a Milano dal 5 all’11 febbraio 1949, alla Galleria del Naviglio. L’opera si presenta come segue: la sala della galleria illuminata da una luce nera di Wood, al soffitto è invece appesa una scultura informale in cartapesta, ricoperta di vernice fluorescente. Oltre a rappresentare la prima manifestazione creativa del gruppo spaziale, costituisce uno dei primi esempi di environment e sviluppa, tra l’altro, ciò che già era stato teorizzato nel Manifesto Blanco, ovvero la «somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo e spazio». Secondo la descrizione di Guido Ballo, la stanza «è costituita da un cubo nero chiuso, colorato da una luce violacea, piena di penombre, nella quale erano sospese forme spaziali che parevano rami di alberi in fondi marini, o scogliere sospese in arie, ma “ambientate”». Nel 1950 esce Proposta per un regolamento, una circolare più che un manifesto, con la finalità di riepilogare gli obiettivi e le tappe fondamentali degli spazialisti e che si pone come il primo documento che tenta una auto-storicizzazione del movimento. La circolare nasce, sotto la spinta di Milena Milani, con il fine di chiarire il ruolo centrale di Fontana nella definizione della poetica spaziale, così da sedare la tensione competitiva tra Joppolo e Crippa, che rivendicavano entrambi la paternità del movimento.

L’anno successivo Fontana è l’unico firmatario del Manifesto tecnico dello spazialismo, presentato durante il I Congresso Internazionale De divinae et humana proportione svoltosi nell’ambito della IX Triennale di Milano. Questo manifesto, molto affine al Manifesto Blanco ribadisce, quasi fosse un mantra, «Noi continuiamo l’evoluzione del mezzo nell’arte», sostenendo la necessità dello sviluppo dell’arte attraverso i nuovi mezzi scientifici e tecnologici, come il fotogramma, la televisione, il cemento armato, il neon, la luce di Wood. È l’epoca in cui «si va formando una nuova estetica, forme luminose attraverso lo spazio». Quest’ultima affermazione è perfettamente rappresentata visivamente nel Concetto spaziale a luce di neon, che sovrasta lo scalone d’onore del Palazzo dell’Arte durante il periodo della IX Triennale. Un arabesco di luce che richiama il moto spaziale delle figure barocche, il dinamismo plastico del futurismo e la gestualità della nuova poetica informale. È il chiaro esempio degli intenti di Fontana: quello di unire in un’unica arte spazio, architettura e scultura. Del 1951 è ancora il Manifesto dell’arte spaziale, che rappresenta, allo stesso tempo, l’atto di nascita effettivo del movimento spaziale, che inizia a diffondersi non solo a Milano, ma anche a Venezia. Nato dalla discussione svoltasi alla Galleria del Naviglio, la sera del 26 novembre 1951, a cui partecipano anche i nuovi firmatari, pur semplicemente ribadendo i concetti espressi nei precedenti scritti, rappresenta, inoltre, una presa di posizione contro il figurativismo e il non figurativismo della tradizione concretista. L’anno dopo è pubblicato il Manifesto del movimento spaziale per la televisione, redatto in concomitanza con gli esperimenti della RAI, in occasione del quale Fontana utilizza le prime tele e carte bucate per proiettare immagini luminose in movimento. Il manifesto celebra il ruolo della televisione come mezzo nell’evoluzione dello spazialismo nonché l’uso dello spazio come materia plastica, ribadendo la necessità di un’arte separata dalla materia, che «attraverso lo spazio possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto».

Con quest’ultimo scritto, si conclude il cosiddetto spazialismo storico e si esaurisce l’adesione di Fontana ai manifesti collettivi. Pur partecipando alle mostre del gruppo, segue un percorso del tutto autonomo e su più registri, dalla ceramica, alle ambientazioni architettoniche fino al concorso per la quinta porta del Duomo di Milano. È a partire da queste premesse che Lucio Fontana realizza i Concetti Spaziali Buchi (1949) e successivamente le Attese (1958). Già si è avuto modo di sottolineare come, alla Biennale del 1948, appena rientrato dall’Argentina, espone Scultura spaziale una sorta di «librato anello di piccoli ammassi di materia primaria» con cui inizia a dare priorità all’apertura spaziale. Tuttavia, il reale superamento della dimensione piatta della tela si realizza, nel 1949, con i Buchi, presentati la prima volta nel febbraio del 1952 alla mostra Arte spaziale al Naviglio di Milano. I primi Buchi sono realizzati da schermi di carta telata bianca su cui “disegna” un vortice di piccoli fori di diversa grandezza. Successivamente, passa a tele bianche o comunque monocrome e al vortice si sostituisce spesso un elegante arabesco. Il titolo dato dall’artista, Concetti spaziali, sta ad indicare il «concetto nuovo di vedere il fatto mentale» che è alla base di tutta la sua poetica, non più incentrata sulla rappresentazione del reale, ma dell’idea alla base dell’opera. Rappresentano quindi «una dimensione al di là del quadro, la libertà di concepire l’arte attraverso qualunque mezzo, attraverso qualunque forma.» Nel 1959 vengono esposti al Naviglio i Tagli, presentati come novità nel marzo dello stesso anno alla Galerie Stadler. Così come i Buchi, i Tagli oltrepassano il piano della superficie con la finalità di creare secondo le stesse parole di Fontana «una dimensione nuova nell’orientamento delle arti contemporanee», mirando a un’unione tra spazio interno e spazio esterno, tra spazio reale e quello immaginario. Il titolo posto sul retro della tela dall’artista, Attesa (se il taglio era unico) o Attese (se i tagli erano plurimi), implica una pausa, un richiamo temporale, l’attesa di un evento ignoto. In una lettera a Mario Bardini del 21 febbraio 1959, Fontana chiarisce il titolo che ha voluto dare alle sue opere: «o sono un “santo” o sono un “pazzo”!!! Ma forse sono un santo, ho sopportato troppe angherie che a quest’ora dovrei essere in manicomio, invece queste “Attese” mi danno pace!!! In tanti anni di lavoro questo è il momento più felice per me!». Non importa quindi il mezzo, tela o terracotta che sia, Fontana è interessato a rappresentare uno spazio altro.

Attraverso il foro o la fenditura vuole giungere a una nuova dimensione. Il supporto gli serve unicamente per raggiungere il fine di ricreare un’ulteriore spazialità. La produzione dell’artista argentino di Concetti spaziali in terracotta o ceramica è finalizzata alla realizzazione di tre serie di oggetti: tavolette vasi e piatti che nel seguente paragrafo verranno analizzate dal punto di vista cronologico. È così, quindi, che già nell’estate 1959 espone al Pozzetto chiuso di Albisola i suoi noti Concetti Spaziali, realizzati su tavolette in terracotta colorata a freddo, chiamati da lui “Pane”. Nelle estati del 1959 e del 1960, dopo in periodo di impegno soprattutto sulle opere in tela, Fontana ritorna alla terracotta con le Nature, esposti due pezzi, per la prima volta nella mostra Dalla natura all’arte presso Palazzo Grassi di Venezia e, successivamente, in novembre a Parigi presso la Galleria di Iris Clert. Come si evince da una lettera che scrive all’amico Jef Verheyen, queste opere sono eseguite ad Albisola nell’estate del 1959: «Ho fatto quasi 30 palloni in terracotta molto grandi con dei grandi tagli e buchi, sono molto contento, è il nulla! La morte della materia, è la pura filosofia della vita! Bene». Inizialmente queste sculture in terracotta patinata appaiono come ciottoli monofacciali o forme “bivalvi” complementari, che formano cioè un’unica scultura. Successivamente si trasformano in palloni, come li chiama Fontana in modo informale, realizzati in bronzo. Le Nature richiamano principalmente a quell’immaginazione cosmica a cui Fontana fa spesso riferimento. Scrive Marcello Venturoli, a proposito della mostra veneziana: «la chiave della scultura è nella loro minacciosa vitalità, fra vegetale e animale: questi frutti gonfi e ciechi, carichi di una linfa che tende la loro superficie come una pelle, che sembrano per i vuoti e per i pieni sulla pur tonda cassa dar quasi la misura di un respiro, sono stati aggrediti dall’artista il quale ha compiuto su di loro una specie di profanazione; con un legno spuntano delle lunghezze di un palmo, ha inferto su queste vite squarci e ferite, spacchi talvolta longitudinali come se si fosse servito di un tremendo apriscatole: e rimangono occhi e gola, fessure e labbra aperti nella cecità di questa materia vivente, così indifesa e così terribile nella sua protesta».

Verso gli anni Sessanta, questo ciclo si evolve in forme sferiche o ovoidali, spesso allungate fino ad assumere la forma di un siluro, che rappresentano la trasposizione in pittura degli Olii in tali opere compare il tracciato graffito lungo la circonferenza e i buchi si tramutano in strappi di materia rialzata, mentre la superficie smaltata ricorda le placide e lucide superfici dei Concetti spaziali su tela. Il progetto Giacometti–Fontana. La ricerca dell’assoluto offrirà un confronto mirato fra le loro opere, volto a dimostrare punti di tangenza e contatti virtuosi frutto di un sentimento condiviso sbocciato sullo sfondo di un’epoca afflitta dagli interrogativi sull’uomo e il suo ruolo nell’universo. Un’ indagine antropologica lega le riflessioni dei due artisti: entrambi guardano al mondo come a un luogo di passaggio, di transito, e tentano di rappresentare l’immateriale attraverso la materia, logorata da Giacometti e forata da Fontana. Uno struggente senso del sacro nutre il loro slancio verso l’ineffabile e l’insondabile. Sempre a ricercare il mistero dell’esistenza e del senso della vita, spingendosi fino al prima della cultura e all’irraggiungibile dell’infinito, Fontana e Giacometti rimandano a un altrove da afferrare con le mani, da ghermire nella materia, da reificare in una immagine, in un corpo, in un volto o in un gesto. Non mancherà di suscitare emozione e inedite riflessioni l’accostamento mai immaginato fra L’objetinvisible di Giacometti e la Signorina seduta di Fontana: un confronto teso a studiare il valore formale e semantico del vuoto che le mani sfiorano e disegnano nello spazio, allegoria della presenza di un’assenza, di un peso immateriale, di un volume incorporeo, rappresentazione di un’attesa, di un desiderio e di una possibilità oltre il visibile.